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bellini, dall'ombra alla luce di Fabiana MENDIA

Parole d'ordine: classicismo senza età, natura come miracolo, sensibilità per gli effetti della luce e del colore, inesauribile freschezza inventiva. Giovanni Bellini, protagonista della diciottesima monografia presentata da Vittorio Sgarbi (da domani in edicola con Il Messaggero) è l'interprete del profondo cambiamento nella pittura a Venezia tra Quattrocento e Cinquecento. Mai pago fino in fondo delle proprie sperimentazioni e dei traguardi professionali è sempre stato pronto ad accogliere stimoli esterni, come si manifesta già a partire dagli anni Cinquanta, quando si rivolge verso Padova, guardando da una parte a Mantegna e dall'altra a Donatello. E' figlio di Jacopo, che nella Serenissima insieme ad Antonio Vivarini sono considerati i principali esponenti di quella corrente artistica definita "Rinascimento umbratile": una pittura malinconica, che si esprime in forme delicate, con colori chiari. Le prime opere ("Madonna greca", "Pietà" di Carrara) nacquero all'ombra di suo padre e il percorso del giovane si svolse inizialmente in parallelo a quello del fratello Gentile, che divenne col tempo il più raffinato e importante ritrattista ufficiale e specialista nei grandi "teleri", risposta lagunare alla pittura ad affresco, non adatta sulle umide pareti veneziane.
Giovanni intorno agli anni '70 è artefice di una nuova svolta. Comincia a sperimentare il nuovo stile messo a punto dal cognato Andrea Mantegna (nel 1453 sposa la sorella Nicolosia) e nascono "La Preghiera nell'orto", "La Trafigurazione", opere fondamentali per misurare la suggestione e il rapporto intercorso tra i due cognati. Ma a questo punto Bellini mostra di sapere ormai contrapporre al grafismo mantegnesco un concetto di luce straordinario e già personale. Da qui a poco seguirà la "Pietà" di Brera, in cui senza abbandonare la lezione dell'umanesimo padovano apre una nuova strada alla pittura veneziana, che sboccerà nel "tonalismo" di Giorgione. La commovente figura del Cristo sembra spegnersi insieme alle ultime luci del tramonto, il dolore della madre e di Giovanni sembra essere parte di un volere divino, segno di un'armonia superiore che unisce uomini e natura. Nel luminismo soffuso, nella pacatezza dei tratti e delle emozioni, nella grande serenità umanistica che gli permette di affrontare nel modo più naturale anche la rappresentazione dei momenti più mistici, il maestro mostra di conoscere la sintesi forma-luce-colore di Piero della Francesca, nonché la nitidezza e la precisione analitica della pittura fiamminga, appresa da esempi nordici presenti in laguna oppure tramite l'interpretazione di Antonello da Messina.
L'"incipit"della fase matura è la "Pala Pesaro" in cui è fondamentalmente nuova la tipologia di una cornice che fa tutt'uno con la pittura, nel segno di una inscindibile continuità prospettico-spaziale.L'idea dello schienale aperto sul trono, vero quadro nel quadro, scandisce ulteriormente questa nuova definizione strutturale e compositiva: intuizione che avrà sviluppo nella successiva "Pala di San Giobbe", fino ad arrivare a una totale indivisibilità, anche ottica del dipinto e della sua cornice.
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